Roberta Maresci
ROMA
Questa volta sono gatte, sopravvissute alla sperimentazione ma infettate. La storia di Sissi, Marina e Violetta, insieme ad altre 67 micie, è quella di cavie sottoposte a un doloroso test per esaminare l’efficacia di vaccini contro la FIV, o immunodeficienza felina. A loro il virus gli è stato iniettato quando avevano un anno di età. Da quel giorno portano in corpo un batterio che somiglia molto a quello che provoca l’AIDS nell’uomo, anche se non è trasmissibile alla nostra specie. Quindi Sissi e le altre non sono contagiose, ma vulnerabili anche al più banale raffreddore, perché questo batterio che si tirano dietro come un fardello, provoca un lento indebolimento del loro sistema immunitario. Cresciute nello stabulario dell’Università di Pisa, hanno conosciuto la prigionia in piccole gabbie, subendo prelievi, iniezioni, dolore e spavento. Per la prima volta, dopo questo stato di lunga deprivazione etologica, fisica e psicologica, sono state avviate alla riabilitazione durante la quale svilupperanno la muscolatura atrofizzata, impareranno ad arrampicarsi, a riconoscere il cibo, a giocare e ad avvicinare le persone con maggiore fiducia. Sono in un rifugio al sicuro, dove trascorreranno un periodo di circa 6 mesi e poi potranno essere affidate a famiglie idonee, grazie ad un progetto curato dalla LAV-Lega Anti Vivisezione e da I-Care Italia.
Una storia che rattrista il mondo animalista. Ma fa il paio con quanto trapela in materia nel resto d’Europa e in America dove, contrariamente alle aspettative, le cavie avviate alla vivisezione sembra proprio subiscano un aumento e non una diminuzione. Il solo pensiero toglie il sonno: dunque subisce perfino un’accelerazione l’oscena sperimentazione di dopobarba e ciprie sugli occhi dei conigli, per indovinare se davvero saranno irritanti per l’uomo, in cerca della famigerata dicitura “dermatologicamente testato” sul prodotto da acquistare. Incredibile ma vero: secondo gli ultimi dati resi pubblici dal Ministero della Salute, riferiti al triennio 2004-2006, in Italia a scopo sperimentale sono stati utilizzati 2.735.887 animali (ratti, porcellini d’india, uccelli, ovini, pesci, ecc.) – una media annua di 911.962 animali – e di questi più di 2.800 sono cani (in prevalenza) e gatti.
C’è da aggiungere che nonostante la sperimentazione, molti vaccini non sono mai stati scoperti: «è la drammatica conferma che la sperimentazione animale è fallimentare – dichiara Michela Kuan, biologa, responsabile LAV settore vivisezione – e che è indispensabile e urgente implementare il ricorso ai metodi alternativi, ovvero che non fanno uso di animali, ai quali il mondo scientifico più consapevole e innovativo riconosce efficacia, scientificità ed eticità».
«Siamo abituati ad annunci trionfalistici di esperimenti condotti su animali, discutibili sul piano scientifico ed etico, mentre l’elevato numero di esperimenti fallimentari, e dolorosi, condotti sugli animali viene taciuto da coloro che li compiono – prosegue Michela Kuan – Ci auguriamo che la storia di queste gatte, del tutto simili ai milioni di gatti che sono accuditi nelle nostre case, possa rappresentare una nuova e utile occasione per ripensare alla necessità di una sperimentazione che non commetta più simili orrori. Lo stabulario di Pisa era rimasto l’ultimo ad utilizzare gatti in Italia e speriamo che con il 2010 il nostro Paese dica addio all’uso di animali per scopi scientifici».